Due sguardi diversissimi, quello di un prete e quello di un soldato, attraverso cui provare a intuire, senza pretese particolari, ciò che telegiornali e siti di informazione ci mostrano minuto per minuto da Israele.
PRIMA PARTE
Gerusalemme dista via terra 3.952,4 km da Moncalieri. Quelle quarantuno ore di viaggio dividono solo apparentemente la capitale levantina dalla Città del Proclama. Se poco fuori le mura della Gerusalemme di circa duemila anni fa non fosse morto un uomo di nome Gesù di Nazareth e se lo stesso, risorto il terzo giorno, non fosse stato riconosciuto da molti ebrei della sua epoca Figlio di Dio, noi, oggi, di quella città così lontana neanche parleremmo. Ma quella è la Città Santa, la santa Gerusalemme, che tale è per tutti i culti monoteistici (ebraismo, cristianesimo, islamismo). Milioni di visitatori e pellegrini, ogni anno, si accalcano nel cortile del Santo Sepolcro, si mettono in fila disciplinata verso la Moschea di al-Aqṣā, appoggiano il capo contro il Muro occidentale del Tempio di Gerusalemme, il cosiddetto “muro del pianto”- ultima vestigia dell’edificio ellenistico distrutto da Tito nel 69 d.c. Attraversando le vie di Gerusalemme il miscuglio millenario di culture, religioni, tradizioni diverse abituate a coabitare è palpabile nelle sete morbide del suq, odorabile negli incensi maroniti, visibile in ogni angolo della città vecchia e nuova. Negli orrori perpetrati da Hamas, scoppiati alla fine di un tempo travagliato per Israele sul fronte interno, oltre il desiderio vendetta mai sopito sull’invasore della Palestina- perché questo è Israele agli occhi degli Arabi- sembra esserci altro, sembra essersi spezzato l’equilibrio che permetteva alle varie anime di Israele e, più generale, della Terra Santa, di “camminare insieme”.
“È cresciuta la tensione ordinaria- ci spiega Don Ruggero Marini, già parroco a Moncalieri, per sessantacinque volte pellegrino in Terra Santa e che ad agosto ha accompagnato un ultimo gruppo di pellegrini- e la tensione è alimentata da gruppi di giovani ebrei ortodossi vicini alla destra di governo”. Uno stato di tensione alimentato, è innegabile, dalla politica di chi cerca di trasformare Israele da stato laico in qualcos’altro: la tensione, infatti, è esplosa agli occhi del mondo da inizio anno, nelle manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia, volta a ridurre i poteri della Corte Suprema in materia di veto su iniziative legislative. “In piazza contro il governo di ultra-destra c’era la classe media: impiegati, riservisti, ebrei moderati, arabi integrati, ma queste manifestazioni sono solo la punta di un iceberg”. La tensione vera, che serpeggia in quegli stessi strati della società, nasce dalla crisi economica mordente. “La perdita del potere d’acquisto delle famiglie, la congiuntura, l’inflazione sono le cause più profonde della divisione della popolazione”.
Una tensione palpabile, quella registrata nei suoi ultimi viaggi da Don Marini, misurabile negli occhi esasperati delle folle e alimentata anche da gesti semplicemente bellicosi, come le passeggiate provocatorie del Ministro della Difesa ultraortodosso Yoav Gallant nella spianata delle moschee- per gli ebrei la spianata del Tempio- e gli attacchi ai Cristiani, perpetrati da giovani e giovanissimi ultraortodossi che per le strade di Gerusalemme e davanti alle chiese gridano, insultano e cercano di impedire in ogni modo la celebrazione dei riti delle confessioni cristiane. Questa è una fotografia di Israele oggi, scattata da chi l’ha vissuta e anche da chi, in queste tragiche ore, è lì. Però, è una fotografia da cui non si devono cancellare le robuste piante d’ulivo del Dominus Flevit o del Getsemani, ricchi di quei ramoscelli simboli universali di pace e riconciliazione. “In questi ultimi decenni, nonostante le crisi che pure ci sono state, le persone di buona volontà israeliane e palestinesi, cristiane ebree musulmane, hanno cercato di camminare insieme. L’unica via per continuare a farlo è il dialogo, che gli attentati di Hamas hanno fermato, ma non bisogna cedere alla violenza e proseguire su questa strada, come efficacemente dimostrano le religioni”. I luoghi di culto, infatti, restano aperti nonostante tutto: il Santo Sepolcro con la sua piccola babele di riti e lingue diverse e sovrapposte le cui chiavi, da secoli, sono custodite da gente musulmana; la moschea di Al-Aqsa con la cupola il cui oro riflette su quelle bizantine dello stesso Sepolcro; la cattedrale cattolica del Santissimo Salvatore con il campanile svettante sulla Città Santa; il monastero maronita con le sue melodie cantilenate. Sono questi tutti luoghi di dialogo, di scambio religioso culturale umano. “Sono luoghi di preghiera e di dialogo, quindi di riconoscimento reciproco”. È un prete, don Ruggero, uno che a quell’annuncio di duemila anni fa, di quell’Uomo-Dio morto e risorto nell’incredulità della sua gente, crede e, quindi, non può pensare possa finire tutto nel sangue, che la morte sia la parola fine di due popoli che sono un tutt’uno, perché affratellati dalla terra dal sangue e dallo stesso ceppo abramitico. Quello che stiamo vivendo, lo vedremo nella seconda parte, riporta le lancette indietro di molti anni, anni terribili e sanguinosi. C’è da chiedersi, dunque: riusciranno le persone di buona volontà a gridare “Shalom” più forte dei violenti d’ogni parte che gridano oggi come nel '72 Màvet (morte)?
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